Titolo: Gli allevamenti intensivi, caratteristiche e problemi.

L’allevamento intensivo viene definito come “un’impresa zootecnica ad alta intensità di capitale o lavoro sull’unità di terra”. Sarebbe forse più corretto dire che l’allevamento intensivo è “un’attività produttiva che si basa sul controllo delle fasi e non necessita di nesso funzionale con un fondo e quando gli ‘scarti (letame, liquami, lettiera) diventano o sono considerati rifiuti”. Vista così, la questione assume una dimensione completamente diversa soprattutto per quanto attiene l’ambiente e le sue implicazioni per gli ecosistemi, oltre alla stessa qualità del prodotto finale: carne o latte o uova, ecc. che sia. Si pensi allo smaltimento dei liquami (la Pianura Padana è considerata l’area più inquinata d’Europa a causa dell’alta concentrazione degli allevamenti). Oltre che dispendiosa, la stessa modalità con cui si realizza detta funzione nell’ambito degli stessi allevamenti intensivi sta lentamente provocando un avvelenamento progressivo delle falde acquifere, a causa della presenza di antibiotici, ormoni e metalli pesanti somministrati agli animali, e favorendo allo stesso tempo uno sviluppo sregolato di alghe. La Fao sostiene che gli allevamenti intensivi producono il 18% di tutte le emissioni di gas a effetto serra. È diretta conseguenza dei medesimi sono anche le piogge acide che compromettono la fertilità del suolo. Gli allevamenti intensivi, inoltre costituiscono la principale causa di perdita di biodiversità, di estinzione specie, di zone morte negli oceani, dell’inquinamento delle acque e distruzione di habitat. La Banca Mondiale imputa il consumo di suolo principalmente agli allevamenti intensivi. A fronte di tali chiarimenti istituzionali è d’obbligo precisare che il 91% del disboscamento della Foresta Amazzonica è riconducibile sempre a questi ultimi. Si sostiene, a torto, che gli allevamenti intensivi siano maggiormente sostenibili dal punto di vista ecologico e ambientale. Ma secondo uno studio dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), riscaldamento globale e allevamenti sono responsabili rispettivamente del 38% e del 15,1% del particolato PM 2,5 del Paese. Lo stoccaggio degli animali nelle stalle e la gestione dei reflui inquinano quindi più di automobili e moto (9%), e più dell’industria (11,1%), mentre lo stesso settore negli ultimi sedici anni non ha presentato alcun tipo di miglioramento in termini di inquinamento da PM passando infatti dal 10,2% al 15,1% nel periodo considerato. Isde Italia afferma ancora che l’esposizione ripetuta nel tempo ai PM2,5 originati dagli allevamenti intensivi, sospesi nell’aria può portare a disturbi respiratori, produrre effetti tossici, provocare problemi per la funzione polmonare, malattie infettive, infiammazioni croniche respiratorie e asma, fino ad arrivare a determinare malattie molto gravi, incluso il cancro del polmone. Esiste poi un legame tra zoonosi potenzialmente epidemiche e gli allevamenti intensivi, e ciò con evidenti ricadute per la salute delle persone e sulla loro resilienza alle infezioni, determinate a loro volta da una scarsa qualità del cibo consumato. Da tempo è provato infatti il nesso tra l’allevamento e il passaggio di patogeni tra il mondo animale e gli umani (morbillo, vaiolo, virus aviaria, Pedv, Sars, ASF, ecc.). L’industria degli allevamenti intensivi risulta interamente slegata dall’agricoltura e al suo servizio per favorire invece in modo prevalente la produzione dei mangimi con grandissimo spreco di risorse. Basti pensare agli Stati Uniti: il 70% della produzione di mais e l’80% della soia sono destinate agli allevamenti intensivi. Ciò implica un grosso consumo della risorsa idrica: per produrre 2 etti di carne di manzo, occorrono 25mila litri di acqua! Un ettaro di terreno che potrebbe produrre in un anno 2500 kg di proteine vegetali per l’alimentazione umana è invece utilizzato come mangime; mentre produce solo 250 kg di proteine animali, con un consumo di acqua 70 volte maggiore. Le conseguenze maggiori degli allevamenti intensivi, oltre che sulla salute dell’uomo ricadono dunque sull’ambiente e infine sulla qualità dei prodotti. Il sistema del mercato globale con i suoi prezzi finali non riflette altro che il mero criterio quantitativo (maggiore produttività sempre e comunque a discapito della qualità e della biodiversità), favorendo così largamente l’intensività della produzione rispetto a sistemi di allevamento più sostenibili sia dal punto di vista ecologico, sia etico. Stesso discorso vale per gli ortaggi, la frutta e i cereali ora in commercio e di cui ci nutriamo ogni giorno oggi. Gli stessi sono molto meno nutrienti rispetto agli alimenti di 100 o anche solo di 30 anni fa. In questo settore vi sono ormai solide basi scientifiche per evidenziare questa preoccupante tendenza. Per la zootecnia al contrario non si dispone purtroppo di molti dati. Guardando al futuro appare chiaro che arginando i sistemi intensivi di allevamento, modificando il modello produttivo di agricoltura e della zootecnia, e adottando sistemi ecologicamente sostenibili (quali ad esempio le produzioni bio, l’agroecologia e soprattutto il Metodo Nobile) si potrebbero raggiungere diversi e desiderabili obiettivi sociali. Si darebbe un contributo fondamentale al miglioramento degli ecosistemi, si assicurerebbe ai consumatori prodotti più sani e soprattutto salvaguardare i redditi di chi produce con i sistemi sopra menzionati. L’esplosione del Covid19 ha rimesso a posto la gerarchia dei valori che è stata indebitamente rovesciata dal triste primato assunto dalla finanza la quale ha generato sistemi produttivi funzionali alla sua conservazione e perpetuazione. In tal senso gli allevamenti intensivi e la sua organizzazione produttiva, distributiva e reddituale opera a discapito della natura, della salute, della qualità dell’alimentazione e sulla vita in generale.