Titolo: USCIRE DALLA CRISI. Una riflessione di Marco Vitale

USCIRE DALLA CRISI. IL MODELLO USA HA ROVINATO L’IMPRESA: TORNIAMO A OLIVETTI di Marco Vitale L’ecatombe di imprese italiane o il loro passaggio a gruppi internazionali, sia di maggiori che di minori dimensioni, è stato, negli ultimi trent’anni, impressionante. Il fenomeno è talmente ingente e significativo da non poter essere piegato solo con la cattiva politica economica o con l’inesistente politica industriale o con il sindacato culturalmente e politicamente più arretrato del mondo conosciuto, o con la crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008. Esso è anche testimonianza di una concezione dell’impresa e del suo ruolo nella società, del tutto inadeguata e di una classe imprenditoriale-manageriale estremamente mediocre. È vero che esiste e resiste un gruppo di imprese medie eccellenti e ben guidate (chiamate il IV Capitalismo), ma si tratta di un nucleo esiguo e insufficiente. Lasciato solo finirà per soccombere. Bisogna allargarlo, rinforzarlo e, quindi, ricominciare. È un’operazione di lungo respiro, di natura innanzitutto culturale, quella di cui abbiamo bisogno, che ci porta a ripensare e rifondare il concetto stesso di impresa e del suo ruolo e collocazione nella società e nel modello di sviluppo. Nel suo primo viaggio di studio in America, a 25 anni, Adriano Olivetti, pur nell’ambito di una grande ammirazione per la vitalità, creatività e capacità organizzativa del sistema produttivo statunitense, identificò due grossi difetti: un dominio della visione e prospettiva finanziaria e una super specializzazione esasperata dei tecnici e dei manager che rendeva difficile avere una visione integrata e globale dell’impresa nella società. Questi difetti si sono andati esasperando nel tempo e negli ultimi trent’anni, soprattutto il primo, sono diventati un vero e proprio cancro. Ma noi, nelle nostre imprese e nelle nostre università non ce ne siamo accorti e siamo rimasti appiattiti sul modello americano e anzi sulla degenerazione dello stesso. Invano Giorgio Fuà, più di vent’anni fa, si chiedeva se fosse obbligatorio che l’Italia seguisse supinamente l’America, e invano Sylos Labini, nel 2003, preannunciava, con forza e chiarezza, il prossimo collasso del sistema americano. Abbiamo così rinunciato a dare un nostro contributo che si basasse sulle nostre caratteristiche e si ricollegasse alle nostre radici, ai mirabili imprenditori toscani e lombardi, che dal 1200 al 1500 hanno creato, con le loro imprese, vero e autentico sviluppo e hanno, al contempo, costruito meravigliose e civilissime città come Firenze, Siena, Venezia; al grande pensiero dell’illuminismo lombardo (da Verri a Cattaneo) e napoletano; ai nostri grandi imprenditori (da Giuseppe Colombo a Giovanni Pirelli, a Adriano Olivetti a Enrico Mattei) ai nostri grandi economisti contemporanei (da Giorgio Fua a Sylos Labini a Stefano Zamagni) e aziendalisti (da Coda a Dioguardi). Chiudendo il suo libro più importante (del 1954), Peter Drucker ammoniva che il manager del futuro non sarebbe stato caratterizzato soprattutto dal suo livello di competenza, ma piuttosto dal suo carattere, indipendenza e dirittura morale. Sotto questo profilo, pur con tante luminose eccezioni, il management italiano, nel suo insieme come gruppo professionale, è fallito. Messosi al supino servizio della deleteria concezione della finanziarizzazione dell’economia, e dalla copiatura acritica dei modelli americani, ha favorito la crescita di tante “imprese irresponsabili”, secondo l’efficace definizione di Luciano Gallino. E molte di queste sono state spazzate via dalla crisi. Per ricominciare non è più sufficiente un appello alla moralità personale dei manager, come fece Drucker nel 1954. È necessario ricostruire la visione di una economia civile, anche rivalutando le migliori tradizioni italiane, nell’ambito delle quali l’impresa si collochi come soggetto responsabile e creatore di sviluppo collettivo, e questo sia riconosciuto come il compito principale dei manager, piuttosto che quello di incrementare in qualche modo e in ogni modo, lo shareholder value degli azionisti. Come ha sostenuto negli ultimi trent’anni, una sciagurata e dominante teoria proveniente dagli Usa e da noi supinamente accettata e divulgata anche da cattedre importanti. Si tratta di un compito esaltante che indichiamo alle nuove generazioni. Fonte: da Il Fatto Quotidiano del 10 ottobre 2014