Come si è visto nel capitolo precedente, nonostante il suo
immenso patrimonio naturale, ambientale, storico,
monumentale e culturale che lo attraversa ininterrottamente
con le sue testimonianze di oltre 2500 anni, Palazzolo,
unico comune nel Val di Noto, appare separato tra le risorse
di cui dispone e gli abitanti che ne sono eredi. Ne
costituisce prova il modo in cui questi beni vengono
trattati: dalle concerie medievali-pur affidate
all’Amministrazione comunale-totalmente ignorate e in
degrado, ai Santoni, fino agli sfregi quotidiani operati sui
monumenti o nei pressi degli stessi. Basti pensare
all’alluminio anodizzato accanto a opere come l’Annunziata o
la chiesa Madre, alle sculture del Laurana, alla qualità
urbana dei nuovi insediamenti abitativi e quartieri, ecc.
Perché questo patrimonio è così estraneo agli abitanti e non
viene di conseguenza rispettato, conservato e “utilizzato”
come occasione di sviluppo e di progresso della comunità e
dell’economia del territorio?
Spesso sono le stesse risorse più preziose del territorio ad
essere viste come un peso-Giuseppe ma che c… dobbiamo farne
del Teatro greco, non sarebbe meglio, con questa vista un
bel condominio? Diceva un mio amico tanti anni fa-, un
problema e non un’opportunità. Eppure a Palazzolo sono stati
realizzati, tra pubblico (uno) e privato (quattro) ben 5
musei e un Centro Studi che, però, dopo vent’anni è stato
costretto a dislocarsi in altra località, ospite ormai
presso il Comune di Buccheri che ha messo a disposizione
gratuitamente un’intera ex scuola.
Se penso a “certi” musei della Romania, dell’Ungheria,
dell’Albania, della Croazia, dove i decisori politici,
memori dell’importanza della cultura-non foss’altro come
semplice offerta del pacchetto turistico- hanno valorizzato
ogni sia pur piccola testimonianza storica per farne un
museo o, addirittura come a Budapest dove esiste un
bellissimo museo della storia dell’agricoltura ungherese,
con pochissime testimonianze ma con ricostruzioni
affascinanti e assai interessanti sul piano didattico,
scientifico e informativo di una ricca storia di cui
l’Ungheria è stata protagonista.
Vale la pena, a questo punto, ricordare quello che Tomasi di
Lampedusa ne “Il Gattopardo” fa dire al Principe di Salinas
rivolgendosi al sig. Chevalley, inviato dal re savoiardo per
offrirgli un posto di senatore nel nuovo parlamento
unitario. “…Sono venticinque secoli almeno che portiamo
sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte
venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna
germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il
“là”… Eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia…. I
siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice
ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più
forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia
per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per
indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di
raggiunta compiutezza…”. Penso, a tale proposito alla
Cooperativa Apollo, al macello intercomunale, al Presidio
Slow Food della Salsiccia tradizionale di Palazzolo Acreide,
al Latte Nobile, al Museo dell’educazione alimentare e della
fitoterapia e a tanti altri tentativi tutti falliti.
Occorre capire.
A nostro giudizio, nel territorio ibleo, nel suo complesso
e, più in particolare a Palazzolo, si avverte una
depressione socioeconomica che contrappone la «cultura
sociale» del territorio allo «spazio», definito dallo
studioso Bertolini, come un «sistema organico delle
istituzioni in cui si consolidano, in forme giuridiche o di
costume, i principi ispiratori della condotta della
popolazione, [nonché] la filosofia morale e politica, più o
meno elaborata, ma sempre coerentemente adattata ai vari
ceti della società, con la quale si giustifica e si difende
quella struttura. […] Il vero fattore depressivo – aggiunge
– pare che sia questa “non volontà” generale di uscire da un
ristagno di forme produttive […]”.
A fronte di questa forte considerazione occorre aggiungere
che in questo contesto che caratterizza sostanzialmente
tutto il meridione, si evidenzia «la guerra mai risolta tra
identità e appartenenza, dove [però alla fine] a vincere è
sempre l’appartenenza” [intesa come omologazione], il
sentirsi “come tutti gli altri” ». Quest’ultima assume
caratteri ancora più accentuati rispetto a molte altre zone
del Paese come quelle a forte industrializzazione e
strutturate.
La questione nodale, a nostro avviso, sta in questa
“appartenenza” che di fatto si è dimostrata soltanto
omologazione al consumismo. L’appartenenza, nel senso vero e
autentico, dovrebbe implicare una consapevole conoscenza del
proprio contesto storico-identitario, che dovrebbe spingere
al ‘fare’, mentre la realtà dei fatti e la quotidianità
(insofferenza, apatia, lamentazione, disillusione, cinismo e
deresponsabilizzazione) ci dicono che tutto va esattamente
nella direzione opposta.
Viene infatti confermata l’incapacità del “popolo” degli
Iblei a comprendere da una parte le potenzialità e le
risorse del proprio territorio e dall’altra una
sottomissione alla potenza pervasiva dei media, che
impedisce, come avrebbe detto Kant «l’uscita dell’uomo da
una condizione di minorità di cui egli stesso è
responsabile». Con quest’ultima espressione, “minorità”, il
filosofo tedesco intendeva indicare l’incapacità di servirsi
autonomamente del proprio intelletto la cui conseguenza
diretta è, ai fini della nostra argomentazione, la
prolificazione di pratiche di abbandono, di incoerenza e,
alla fine, di immobilismo verso quella (rovesciando questa
volta Rousseau)”non volontà generale” di uscire da un
ristagno di forme produttive.
Una vera appartenenza ci riconduce ad un’accorta valutazione
complessiva circa il ruolo che il Sud potrebbe avere. Nella
direzione indicata da Franco Cassano, occorre «restituire al
sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompendo
una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri […].
Non significando tutto questo «indulgenza per il localismo,
quel giocare melmoso con i propri vizi [...]» ma la
consapevolezza, attraverso il proprio intelletto, di
comprendere il senso di un progetto di vita e di lavoro che
potrebbe partire dalla centralità che il proprio territorio,
nella sua molteplicità di risorse e limiti, dovrebbe poter
conquistare.
Due esempi per comprendere il senso di quanto affermato.
A Palazzolo le feste di S. Paolo e S. Sebastiano hanno un
forte impatto su tutta la popolazione almeno per quanto
riguarda gli aspetti più esteriori e (appunto) consumistici
di quei festeggiamenti la cui origine si rappresenta del
tutto separata dalla chiesa.
Essi sono allo stato privi di una seria analisi critica. Lo
dimostra il fatto che nel mentre si chiede agli aficionados
quante bombe sono state sparate, nessuno degli stessi,
ovvero la stragrande maggioranza, non sa e non conosce ad
esempio in che circostanze morì S. Paolo, che nulla hanno a
che vedere con la cosiddetta persecuzione neroniana dopo
l’incendio del 64; né si è mai sentito un fiato sulla
posizione di Paolo sulle donne: “Voglio tuttavia che
sappiate questo: Cristo è il capo di ogni uomo, l'uomo è
capo della donna e Dio è capo di Cristo. Ogni uomo che prega
e profetizza a capo coperto, disonora il suo capo; al
contrario, ogni donna che prega o profetizza a capo
scoperto, disonora la sua testa, perché è come se fosse
rasa. Se una donna, dunque, non vuol portare il velo, si
faccia anche tagliare i capelli! Ma se è vergognoso per una
donna essere rasa, si copra col velo. L'uomo, invece, non
deve coprirsi la testa, perché è immagine e gloria di Dio;
mentre la donna è gloria dell'uomo. Infatti, l'uomo non ebbe
origine dalla donna, ma fu la donna ad esser tratta
dall'uomo; né fu creato l'uomo per la donna, bensì la donna
per l'uomo. Quindi la donna deve portare sul capo il segno
della podestà per riguardo agli angeli.” Cfr 1 Corinti 11,
3-10
Oppure, “Come in tutte le chiese dei Santi, le donne nelle
riunioni tacciano, perché non è stata affidata a loro la
missione di parlare, ma stiano sottomesse, come dice anche
la legge. Se vogliono essere istruite in qualche cosa,
interroghino i loro mariti a casa, perché è indecoroso che
una donna parli in un'assemblea. Forse è uscita da voi la
parola di Dio? O è giunta soltanto a voi? Se uno crede di
essere profeta o avere i doni dello Spirito, riconosca che
quanto scrivo è un ordine del Signore. Se qualcuno non lo
riconosce, non sarà riconosciuto.” 1 Corinti 14, 34-38.
È evidente che il fondatore della chiesa cristiana ha posto
dei gravissimi ostacoli al progresso dei rapporti uomo/donna
con le sue pesanti parole che hanno attraversato i secoli e
frenato un equilibrato rapporto tra i due sessi. Di tanto la
comunità religiosa palazzolese non sembra averne cognizione,
né una - sia pur larvata -critica è stata mai pronunciata o
l’abbia fatta crescere nella consapevolezza delle
responsabilità culturali che le affermazioni di Paolo hanno
avuto come ricaduta sia nella Chiesa, sia nella società.
Su Sebastiano, militare romano e alto ufficiale e martire
cristiano, nulla viene detto o ricordato circa il suo
esempio di non violenza e della sua avversione verso le
armi. Egli fu anche soccorritore dei sofferenti: si pensi
alle Confraternite di Misericordia italiane di diretta
ispirazione a S. Sebastiano, del tutto assenti a Palazzolo.
Non si avverte nella comunità né un’educazione alla non
violenza e al rispetto degli altri, né una vera cultura
della compassione e della misericordia.
La parrocchia di S. Sebastiano avrebbe dovuto e potuto
contribuire a diffondere e consolidare nella comunità una
cultura della tolleranza, della non violenza, contro una
cultura militarista, e a favore della compassione. Non si ha
la percezione di tale crescita culturale e sociale nella
comunità palazzolese né, tanto meno una partecipazione
consapevole al ricordo dei due santi attraverso il rinnovo
di riflessioni critiche, utili a fare crescere i cristiani
in una libera e cosciente fede.
La parrocchia di S. Paolo avrebbe potuto contribuire a una
crescita di una fede consapevole dei limiti di un pensiero,
peraltro lontano da quello di Gesù, come appunto la
posizione nei confronti dell’altro sesso.
Invece solo omologazione al consumismo che genera
inevitabilmente banali riti stanchi e ripetitivi.
Allora cosa bisogna fare. Come bisogna fare?